Luoghi di culto e pandemia. San Miniato al Monte in Firenze


Di Oliviero Martini

Nella penombra silente della basilica benedettina di San Minato al Monte, a Firenze, abbiamo incontrato e intervistato l’abate, P. Bernardo Gianni. Gli abbiamo proposto una riflessione riguardo alla solitudine conosciuta durante i mesi della pandemia dagli spazi del complesso monastico, abitualmente visitato da moltitudini di fedeli e turisti. Padre Bernardo è persona vicina alla città e figura di spicco nel suo ambiente culturale e spirituale. E l’intervista che segue esplicita nuovamente lo stretto legame tra la comunità di San Miniato e Firenze, offrendo un’interpretazione degli spazi monastici visti attraverso gli occhi dell’antica tradizione. Nelle parole dello stesso Bernardo: “La vita monacale è abitualmente fatta di ‘quarantene’; ti insegna a valorizzare il quotidiano, il frammento, lo spazio, la qualità del tempo”.

Padre Bernardo, come state vivendo questo periodo di segregazione? Avete riformato il vostro modo di abitare gli ambienti della Basilica?

La Basilica ha conosciuto una radicalizzazione della sua vita monastica durante la quarantena e la chiusura forzata. La nostra comunità ha vissuto questo momento con un eccesso di interpretazione restrittiva, non potendo garantire la nostra presenza stabile e l’accoglienza in Basilica, nel rispetto delle misure di protezione.

La vita monastica è un vivere ripetitivo e radicato nella traditio, poiché seguiamo una consuetudine ricavabile da una regola scritta nel 500. Questo radicamento estremo nella traditio ha liberato una costante dimensione spirituale, che gioca nella fedeltà alla lettera e, attraverso di essa, anche a un suo superamento. Questo avviene anche in un continuo riuso degli spazi monastici, in una disponibilità ad ascoltare l’oggi. È come se il tempo venisse superato nel riconoscere una novità, che libera un grande spirito di creatività e di attenzione alla diversità e all’inatteso.

Avete lavorato a una nuova definizione degli spazi della Basilica e del suo complesso?

Abbiamo colto tutta la forza simbolica di un luogo costruito sul dialogo con la luce, attraverso le fessure, le feritoie, i marmi, gli alabastri, i silenzi, il canto e via di seguito. C’è stata la scoperta di una potenzialità espressiva diversa di questo luogo, che non immaginavamo di poter sperimentare e verificare. Abbiamo forse vissuto un paradosso nel sentire la città simbolicamente più vicina, anche soltanto nelle sirene delle ambulanze, e questo ha provocato in noi intensità di partecipazione

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Basilica di San Miniato. Il valore evocativo degli interni sacri di San Miniato è amplificato dall’assenza di corpi, luci, suoni, movimento di queste settimane. Foto Oliviero Martini.

San Miniato vive ancora della sua struttura romanica e quindi di una triplice dimensione: la cripta, rappresenta gli inferi, la parte mediana, la dimensione terrena, e la parte absidale, del coro, esprime la Gerusalemme celeste. L’intero complesso basilicale si è reso disponibile a una ridefinizione degli spazi secondo l’igiene e la sicurezza, aspetti inediti per il monastero, vincendo una tentazione di ritirata negli antichi sotterranei, riscoprendo infine un aspetto della costante tensione tra cielo e terra, umano e divino, contigente e assoluto.

San Miniato è da sempre luogo delle folle di turisti, oltre a fiorentini e toscani. La vostra comunità è stata in grado di accogliere le persone negli interni della Chiesa e degli spazi di essa?

Non abbiamo celebrato al di fuori della Basilica, essendo per noi un controsenso. Non siamo mai stati tentati dalle celebrazioni collettive, non volendo alterare la dimensione della nostra esperienza monastica, caratterizzata dalla penombra e dal non necessariamente riscontrabile. Tutto questo è riassumibile in una frase di Thomas Merton, monaco trappista americano, che recita: “Il Monastero appartiene alla Diocesi della Notte”. All’interno della nostra emarginazione, la digitalizzazione è servita ad attualizzare la Basilica e a mediare la nostra partecipazione.

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Basilica di San Miniato. Foto Oliviero Martini.

La Basilica ha vissuto un anno denso di iniziative culturali, aperte al pubblico. San Miniato sarà di nuovo piattaforma di eventi e allestimenti temporanei?

L’anno del Millenario ha prodotto una significativa intensificazione di eventi, che hanno reso San Miniato una piattaforma privilegiata ma temporanea. I nostri interventi avvenivano nel segno di un’enfasi degli spazi monastici, interni ed esterni, letteralmente proiettando delle speranze. Già prima dell’arrivo della pandemia avevamo sentito la necessità di spegnere i motori, secondo un’esigenza monastica di raccoglimento. Questo anche per marcare la differenza tra un anno di straordinarietà e il rientro all’ordinario. Probabilmente si è pensato di far diventare la Basilica uno spazio di riconoscimento della città, esponendo San Miniato ai media ed enfatizzando la sua dimensione evocativa.

Durante la pandemia, la comunità fiorentina ha avanzato richieste particolari a San Miniato e alla vostra comunità?

La potenzialità espressiva di San Miniato è sempre evidente alla città. Durante l’estate, questo luogo è stato scelto da molti fiorentini per ritrovarsi, in un rapporto con la memoria, il presente e la speranza al futuro. Abbiamo ascoltato e accolto decine di persone, come mai negli anni precedenti. C’è stato un enorme bisogno di ascolto che ci ha reso manifesta la necessità di presidiare totalmente questo luogo. Ad esempio, nel caso dell’aperture delle Porte Sante, la Basilica era affollata. Si è trattato di riprendere possesso del tempo, attraverso l’apertura di una porta, del suo rituale e decifrazione simbolica. È stato molto interessante leggere nelle persone la voglia di rischiare, pur di riappropriarsi lo spazio. Abbiamo percepito nelle persone il bisogno di considerare San Miniato un’estensione della loro casa.

Qual è il vostro legame con gli altri luoghi di culto e rispettive comunità nella città?

In un momento che minava la nostra comunità e che ha prodotto l’esclusione della Chiesa, paradossalmente San Miniato si è resa riconoscibile ai fiorentini come lo spazio nel quale confrontarsi per rileggere la propria marginalizzazione, sia in chiave di fede cristiana che di forte consistenza umana e spirituale. È un dato di fatto che durante la pandemia la Chiesa è ed è stata assente. Allo stesso modo la nostra vita monastica è fatta di quarantene, che però interpretiamo in una chiave pasquale, riconoscendo nello spazio e nel tempo una qualità sempre inedita.

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Basilica di San Miniato. Foto Oliviero Martini.

Bernardo, come festeggerete il Natale?

Il nucleo del festeggiamento del Natale è per noi l’evento liturgico. In linea con quanto ci siamo appena detti, ci auguriamo di festeggiare il Natale con uno spirito di liberazione, di rinascita e di volo.

Oliviero Martini, Novembre 2020